Articoli su Giovanni Papini

1956


Carlo Betocchi

Il grande Papini

Pubblicato in: Il Popolo, anno XIII, n. 188, p. 3
Data: 10 luglio 1956




   Anche ora che Papini ci ha lasciato, che è avvenuto quello che attendevamo da troppo tempo, quello cui assistevamo tra spauriti compresi e meravigliati, ci accorgiamo ancora una volta di non saperci avvicinare a lui. Se prendiamo un libro tra i sessanta e più che egli scrisse, e l'apriamo a caso, e leggiamo ad inizio di un capitolo: «Troppe memorie, troppe nostalgie! Questo colore e calore del passato, questi fatti e passaggi esterni che contano? Son poesia, letteratura, vanità. Quel che importa qua dentro è la storia di un'anima, la storia dell'anima mia e non quella di un palazzo o d'un giornale...», siamo portati di colpo in un clima che mette subito in dubbio ogni nostra capacità di ricapitolazione; e tanto peggio se precipitosa, come occorre oggi, qui, subito dopo la morte.
   Ci afferra un rispetto più grande delle convinzioni che crediamo d'esserci fatte e che d'un colpo si palesano tutte in debito verso gran parte della verità, e dei nostri tentativi sempre provvisori, di comprendere uno scrittore grande che non cessava di costruire se stesso coi mezzi grandissimi di cui disponeva, e che aveva accumulato e sempre andava avidamente crescendo, di cultura e di esperienza letteraria; e aggiungerò quel che ho saputo ieri sera: non sono sette giorni che, inerte com'era ridotto, aveva chiesto che gli si leggesse una storia della letteratura turca alla quale annetteva un grande interesse; e aveva sollecitato chiarimenti da un competente.
   E' vero: la storia di un'anima non si rifà mentre quella anima stessa ci è apparsa più grande che mai sul punto di lasciarci e — diciamolo subito — l'uomo ci ha convinti morendo: quando quest'altra grandezza non finisce di stupirci; e mentre, se volgiamo l'occhio smarrito su Firenze che affonda nel crepuscolo serale e ci appare insensibile alla perdita (è l'ora del ritorno chiassoso dagli svaghi domenicali), ora che torniamo sgomenti dall'averlo lasciato sul letto di morte, ci accorgiamo che questa morte abbandona all'inerzia una grande quantità di punti di riferimento che la civiltà nettamente e universalmente fiorentina di Papini ci aveva abituati a considerare come acquisiti, poichè Firenze era stata più che abitata toccata, rianimata, rifatta da lui in tante parti; vi sono angoli di Firenze, ma intendiamo dire della nuova civiltà e intelligenza fiorentina, e vi è certamente un modo di vedere il suo panorama, che debbono a lui luminose vedute, che respirano al largo che lui vi ha fatto, alla destinazione libera e precisa che egli ha dato a un modo nuovo di vedere le cose, e che parlano proprio di questa edificazione necessaria ai primi del Novecento sul vecchiume Ottoéentesco ancora spirante rimpianti, bili, stenterellate e palliativi risorgimentali.
   Papini vi si fa fin da ragazzo d'una intraprendenza micidiale, sgombra e butta all'aria il polverume che alleva le tarme, mette a partito tutto quel che si stampa in Italia in fatto di cultura utile, e a rifarsi dalla «Biblioteca Economica Sonzogno» (il Papini povero e lirico della nostra gioventù), inghiotte consuma e digerisce libri quanti non potrebbe una intera generazione studiosa, e passa a maciullare col suo ingegno avidissimo quello che si stampa fuori, che si può scovare nelle biblioteche, o ricevere attraverso i suscitati contatti, gli spiragli che riesce ad aprirsi con l'estero.
   Apro un altro libro a caso e leggo: «Per studiare liberamente, pensa Agostino, ci vuol tempo e ci vogliono libri. Ma dove ho il tempo di leggere e meditare per me? E dove e come procacciarmi i libri?». Sono i problemi di quel tempo papiniano passati (1930) nel suo Sant'Agostino. Che se un Papini di tanto furore fosse stato in Francia, e Firenze Parigi, le fìaccolate, i razzi, le fontane luminose dell'esaltazione sciovinista non finirebbero ancora di ricadere sulla città; questa città morta, stasera, che par viva, col suo bell'Arno fluente, e i motocicli bollenti che saettano sui ponti, e le belle colline addobbate dall'eterna mestizia dell'arte vestita di gioia.
   L'uomo muore e ti lascia, dolce paese! Ma la sua storia serpeggia nelle strade che vi si rinchiudono sopra nel buio. «Ogni sera, quando le stelle ci fanno più pensosi, quando gli uomini tornano dai lavori e hanno tempo di pensare a ciò che hanno fatto e faranno, quando passano per le vie i canti e i suoni di coloro che non possono dimenticare, noi ci mettiamo dinanzi alle nostre carte e cerchiamo con gli occhi un po' umidi e la mano uu po' tremante l'itinerario della nostra vita».
   Ho letto. anche ora, a prima apertura di libro: qui è Il tragico quotidiano, del 1906; se tiro a sorte Papini scopro l'anima; caro, estroso, impareggiabile giocatore anche lui, del suo, e che pagava i debiti e se apro La spia del mondo, che è del '55, a quarantanove anni di distanza (come l'ultimo libro, che è La loggia dei busti), posso leggere un'altra domanda lungo l'itinerario papiniano: «Qual'è l'amor nuovo, sorto e fiorito nel tempo nostro?»: che «non cessava di domandare, per gli altri e per sè». E leggo altrove, stesso libro, una affermazione : «Il vero è nel fatto, diceva il vecchio vice. Solamente colui che agisce, conosce e crea la verità. Sogni e illusioni, quando sono vissuti e creduti con sincera e gagliarda pienezza, cioè quando son capaci di trasformare e di creare, sono più veri d'ogni altra verità, non meri divertimenti della fantasia ma la forma più eccelsa della realtà...».
   Guardiamoci intorno, perchè Firenze sembra rispondergli da tutte le parti.
   Non si può soltanto rimpiangere e ripiegare su noi stessi. Siamo davanti a un altro fatto, al gran viaggio di una vita, ora che è tramontata dove non ci son più tramonti. E nell'attesa di ripercorrerla come si potrà fare con più agio, e con più tempo, giova, davvero giova confessare che i sessanta e più libri di Papini non possono essere intanto istradati, nemmeno per sogno, sul binario morto dello svincolo merci, e dei confronti con le bollette che ci tremano in mano, suvvia diciamolo! con quell'animo che ci ritroviamo, bastardo e incredulo, scettico e stanco a forza di sofismi stilistici, e di pensieri cautelosi.
   Ma quanto hanno viaggiato, invece, che aria hanno dato a Firenze questi libri d'andata e ritorno, importatori ed esportatori di novità. Anche quelli che sembrano carichi di materia più sorda, ribaltato il carico, sciorinano uno scintillio: e anche quando non sembrano a posto coi fogli della gabella e le bollette d'importazione.
   Immagini e pensieri che esprimo per venire a concludere che il senso della vita e dell'esperienza di Papini, è come quello che si ravvisa nel miglior libro di quasi tutti i grandi scrittori: è il senso di un lungo amoroso viaggio fatto da fermo. E se mi guardo intorno, fra tanti scrittori cui penso, o viaggiatori d'arcipelago, nessuno mi par come lui, e con gli stessi polmoni.
   Ma questo viaggio com'è? Ora che l'abbiamo visto morire a quel modo, reclamando che l'estrema unzione fosse esclamata a gran voce, per intendere in chiaro il suo trapasso nell'al di là, ora ci vuol poco a capire che il senso era diritto, era al modo degli eroi che piacevano a lui, «sempre acquistando» così come Ulisse, e accumulando di periglio in periglio la volontà di oltrepassare: e rientri pure nel mistero umano che tutto questo paia un cerchio tondo a guardarlo, che oggi s'è chiuso. Ma più alto è il mistero divino, per cui la nostra vita sconfina, e lascia cibo alle generazioni nuove: e chi non sa che i cerchi delle rondini son tutti ad un fine, e sotto i tetti crescono le nidiate?
   Parlo qui, forse, perchè anch'io fui della nidiata? No; perchè se fui della nidiata restai un erratico, e sotto le stesse piume serbai un cuor per mio conto: ma amo in lui l'uomo libero. Certo, se oggi muovo un passo per Firenze, mi accorgo che mancando lui manca il miglior operaio; se c'era un angolo bene isquadrato, nella città che facciamo coi nostri pensieri, spesso era suo: e magari, sapendo che c'era, ci s'era abituati a non guardarci. Ma che tiratore di calandri! Ed io, che ero l'ultimo venuto, e che andavo a trovarlo di rado, so bene che ero pagato d'affetto da lui, e d'aiuti, per l'intera giornata d'operaio. Che uomo! Gli volevo un bene dispettoso. Che? Non si fa lo stesso con Dio? Figurarsi con un Maestro cui dobbiamo qualcosa o molto. L'affetto non dato intero, non dato giusto, non restituito tutto con la piena del cuore mi rimorde, ma io resto lo stesso. E se parlo, parlo per la giustizia. La giustizia vuole che si veda grande, dov'era una grand'anima. Già, ma sarei davvero capace di ricapitolare una storia dei suoi libri?
   Aspettiamo che lo facciano non tanto i bravi quanto gli onesti, e soprattutto gli innamorati della vita: e intanto torniamo a leggere versi di Papini: «Nell'alta notte agostana / sotto il parlato brividio / fuori della mia tana / inginocchiato riconobbi Iddio...».


◄ Indice 1956
◄ Carlo Betocchi
◄ Cronologia